Adolescence: perché un ragazzino di tredici anni diventa un assassino?

La serie tv più vista su Netflix, una riflessione potente sulla fragilità dell’adolescenza e sul dolore di chi viene travolto dagli eventi

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Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 20 Marzo 2025 12:51

La prima volta che ho sentito la parola Incel è stato quando una ragazza sotto ad un mio post che raccontava di come Elena, la sorella di Giulia Cecchettin fosse stata nominata donna dell’anno, definiva dei ragazzi che avevano scritto commenti, misogini e insultanti, in merito a quell’avvenimento. Le chiesi spiegazioni, perché non avevo mai sentito quella parola, mi scrisse un messaggio privato, spiegandomi che  gli incel fossero un tipo di club online di uomini che si descrivono come “celibi involontari” (dal termine inglese involuntary celibacy) e incolpano le donne per le loro difficoltà a stabilire legami romantici sostenendo il fatto che l’80% delle donne sia attratto solo dal 20% degli uomini, promuovendo misoginia e supremazia maschile. La seconda volta che l’ho sentita  è stata ieri sera, durante la visione della serie tv più chiacchierata e seguita del momento: Adolescence, che nasce come thriller e si trasforma in una sonda psicologica che ti si infila sottopelle, lasciandoti con una serie di dubbi e di domande che rimangono lì, appese, come piccoli coltelli pronti a bucarti quando meno te lo aspetti.

Ma partiamo dall’inizio in particolar modo dalla trama la serie che si apre con il ritrovamento del corpo di Kathy Leonard una ragazzina di 14 anni in un parco locale, poco dopo la storia si sposta a casa del presunto omicida, Jamie, dove arrivano poliziotti  armati di fucili e pistole, buttando giù la porta, devastando la vita e la casa di questa famiglia. Questo ragazzino viene portato in caserma, spogliato, rivestito e affiancato da un avvocato e da un tutor, che è il padre, terrificante il modo in cui viene restato e terrificante l’accusa: omicidio volontario. A quel punto al padre vede il video dove suo figlio accoltella la ragazzina, non si vede in modo nitido il viso, ma si intuisce chiaramente che è Jamie. A questo punto cosa succede? Il padre cerca di difenderlo a tutti costi e la comunità, che inizialmente era solidale, si trasforma in un ambiente ostile con i media ed i social che fanno le loro teorie e i complotti ancora prima che inizi il processo.

Non starò a raccontarvi di come si evolvono le scene né cosa accade anche perché troppi spoiler rovinerebbero la visione. Vi dico solo quello che è il mio parere è sincero. Ho trovato la serie disturbante dal punto di vista emotivo, probabilmente il mio retaggio di giornalista di femminicidi fa a pugni con un racconto che analizza come una tragedia di queste dimensioni, quindi l’uccisione e la morte di una ragazzina, investano una comunità e in particolar modo la vita e la famiglia dell’assassino, dimenticandosi completamente di chi questa esistenza non potrà più avere la possibilità di viverla: la vittima. Proprio stamani mi sono ritrovata a parlare con una delle mie più care amiche, che ha adorato la serie, e con cui mi trovavo in disaccordo, perché lei, appunto sosteneva che il tema centrale della serie fosse l’adolescenza ed è vero, ed io di controparte sostenevo che mi disturbava non poco il fatto che alla fine tu non ricordi neanche più il nome della vittima, non hai visto come hanno reagito i suoi genitori, non hai visto come la sua morte ha influito sulla società, anzi alla fine si parla di lei come la bulla, come se fosse scontato o prevedibile che ad un’azione corrisponda una reazione, in questo caso un omicidio.

Non hai visto il dolore di chi subisce un lutto del genere, ma si è tutto concentrato sul perché un ragazzino di 13 anni diventa un assassino. E voi direte ce ne sono tante di storie, di racconti, di film che narrano i femminicidi, che raccontano la storia della vittima.

Probabilmente è proprio questo il merito di Adolescence, quello di interrogarsi, di confrontarsi con persone che magari la pensano in maniera diversa. Io forse per la prima volta ho riflettuto su quanto un evento imprevedibile e tremendo come questo possa cambiare per sempre la vita di due genitori ignari, che non hanno colpe, se non quella di aver generato un piccolo assassino, oltre a quella della vittima. Ho sofferto nell’episodio in cui la psicologa squarcia il velo e fa capire cosa possa nascondersi nei meandri della testa di un ragazzino che commette un atto del genere, ho sofferto quando la famiglia, ormai distrutta, si ritrova in un giorno, che dovrebbe essere normale, all’interno di un supermercato, ma niente è più tale, né può esserlo, perché tutti sanno che tu sei il padre dell’assassino, e ti rendi conto che lui non ha responsabilità, anche se credo che un genitore pensi sempre di averle quando succedono queste cose.

Il problema però, nella mia testa, rimane sempre lo stesso, perché alla fine tu non ricordi più neanche il nome della vittima, l’attenzione viene totalmente spostata sull’assassino, che poi questo è quello di cui io parlo sempre, ad un certo punto, della vittima, non si ricorda per nessuno. Non si ricorda più nemmeno il nome.

È vero questa serie è disturbante, obbliga a farsi delle domande, ti costringe a chiederti “E se capitasse a me?”, “Se Jamie fosse mio figlio?”,  ma non riesco a non pensare a certi genitori che nella realtà, quindi nella vita vera, hanno sminuito certi femminicidi commessi dalla carne della propria carne, con parole che hanno distrutto anche la memoria di chi è stato ucciso, “eh ma lei l’ha provocato, è stata lei a trasformarlo”, proteggendo gli assassini, minorenni e non, anche se non è il caso della famiglia Miller.

Ma la domanda più disturbante di tutte forse rimane proprio questa: come ha fatto il bambino Jamie a trasformarsi nel Jamie assassino? E quelle parole urlate alla psicologa: “Ma io ti piaccio? Almeno un po’?”.