Monte Amiata, la storia del Dinosauro Rosso: location futuristica e nascosta di Milano

Un complesso dalla storia lunga e affascinante, una vera e propria ispirazione di design: è il "Dinosauro Rosso" di Milano

Pubblicato: 17 Giugno 2025 17:27

Serena De Filippi

Lifestyle Editor

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Tra i palazzi del quartiere Gallaratese, il complesso di Monte Amiata, che è conosciuto con il soprannome di “Dinosauro Rosso”, è uno di quei luoghi che lasciano interdetti proprio per l’estetica fuori dal comune. Possiamo definirlo un vero e proprio esperimento architettonico nato negli anni ’70, firmato da due nomi di spicco come Carlo Aymonino e Aldo Rossi. Le geometrie decise, i volumi sospesi e il colore acceso ci ricordano un angolo futuristico, che ad oggi è poco conosciuto persino a molti milanesi.

Monte Amiata, la storia del “Dinosauro Rosso”

La storia del complesso Monte Amiata? Dobbiamo tornare inditro nel tempo, precisamente negli anni ’40, quando un lotto agricolo alla periferia nord-ovest di Milano è stato acquistato dalla società Monte Amiata, che era attiva nel settore minerario. Ma ci vorranno anni prima di vedere il famoso “Dinosauro Rosso”: solo negli anni ’60, con i nuovi piani urbanistici del Comune di Milano, l’area verrà destinata all’edilizia popolare. Per il progetto è stato scelto Carlo Aymonino, che a sua volta ha coinvolto Aldo Rossi, chiamato a firmare una delle unità residenziali. I lavori sono iniziati nel 1967 e si sono conclusi sette anni dopo.

La prima cosa da sapere è che il complesso Monte Amiata è stato concepito come una sorta di microcittà, dai volumi netti, superfici in cemento armato, facciate rosse, geometrie studiate: edifici collegati tra loro da ponti, scale e ascensori, al centro una piazza con anfiteatro, spazi verdi, negozi, palestra e – oggi – anche una biblioteca. L’ispirazione dichiarata guarda al modello dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier, ma con l’intenzione di reinterpretarlo. E soprattutto con l’obiettivo ambizioso (ma raggiunto del tutto) di realizzare un nuovo modo di vivere lo spazio urbano.

Oggi il complesso accoglie più di 2.000 residenti, ma resta per molti milanesi un’architettura ancora tutta da scoprire. Nonostante sia spesso ignorato da chi vive in città, ha invece conquistato da tempo l’attenzione del turismo internazionale. Architetti, urbanisti, studenti e appassionati di design arrivano di proposito nel capoluogo meneghino per visitare questo angolo insolito, tanto che non mancano gruppi organizzati e tour guidati che fanno tappa proprio qui. Un interesse che racconta quanto questa architettura continui a suscitare curiosità e dibattito, anche ben oltre i confini della città.

Una struttura simile a un’installazione contemporanea

Nulla è lasciato al caso, eppure tutto sembra sfuggire a un ordine rigido. Gli architetti hanno scelto una strada ben precisa, ovvero quella di ridurre le regole al minimo, lavorando su un equilibrio sottile tra geometrie e caos che è solo apparente. Proprio questa convivenza di rigore e libertà ha attirato negli anni l’attenzione di urbanisti e architetti da tutto il mondo, che guardano a Milano con una certa invidia per essere riuscita a ospitare un progetto così poco tradizionalista. Anzi, rompe tutti gli schemi.

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La struttura particolare del Monte Amiata

L’idea era proprio quella di costruire una microcittà: un luogo dove vivere e condividere, con spazi comuni che vanno ben oltre i classici cortili condominiali. E tutto pensato nell’ottica di creare relazioni, e non solo un luogo da chiamare “casa”. Tra i dettagli di spicco che negli anni sono diventati un set fotografico, protagonisti di servizi di moda, riviste di design e infiniti scatti sui social, troviamo le passerelle sospese, i blocchi colorati in rosso, giallo e blu, il vetrocemento, le gradinate. Di certo, l’esperimento di Aymonino e Rossi ha trovato un posto nei manuali del design, per sempre. Tanto che il condominio Monte Amiata è stato persino oggetto di ispirazione in Giappone.

Perché si chiama Dinosauro Rosso?

A battezzare il Monte Amiata con il soprannome di “Dinosauro Rosso” non è stata solo l’immaginazione popolare, colpita dall’aspetto fuori scala e dalle linee del complesso, ma anche lo stesso architetto che lo ha concepito (il riferimento è presente nei suoi scritti). Le grandi masse di cemento, i volumi sovrapposti, i ponti sospesi che uniscono i vari blocchi fanno pensare a un enorme corpo articolato che si muove nello spazio, come se fosse una creatura preistorica accovacciata nel territorio milanese.

Il colore acceso del cemento, che è stato trattato con pigmentazioni che variano dal rosso al mattone, ha fatto il resto, se così possiamo dire, andando a contribuire all’associazione visiva. Un soprannome che, con il tempo, si è consolidato, fino a diventare il modo più comune con cui i milanesi — e non solo — si riferiscono a questa architettura così insolita.

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Gli esterni del Monte Amiata

Dietro il nome curioso, però, resta intatto il valore architettonico di un’opera che ancora oggi continua a stupire per la sua capacità di essere sempre un po’ fuori dal tempo. E, del resto, queste sono le parole dell’architetto che aveva immaginato il complesso: “Questo dinosauro rosso, con una rigida e lunga coda bianca, sorge ormai terribilmente sopra la pianura”.

Il concetto di “disordine ordinato”

Osservando il complesso del Monte Amiata si ha subito la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che sfugge alle regole canoniche dell’architettura residenziale. Le forme sono spezzate, le linee non cercano simmetria, i percorsi pedonali salgono e scendono senza un tracciato immediatamente leggibile. Eppure, esiste un ordine preciso, ed è questo a renderlo tanto particolare. Aymonino e Rossi non volevano creare semplicemente un quartiere di case popolari, ma un organismo urbano capace di diventare un punto di riferimento per gli abitanti. Tutto è stato studiato per rompere la monotonia dei cosiddetti edifici fatti “in serie”, assolutamente ripetitivi, che spesso caratterizzano le periferie.

Ed ecco, dunque, in un equilibrio sottile, come è nato il concetto di “disordine ordinato”. Ogni elemento segue una sua logica di movimento e di alternanza di pieni e vuoti che rende il complesso leggibile solo vivendo lo spazio. Non è pensato per essere osservato da un unico punto di vista. Ma per essere attraversato. A distanza di decenni, questo complesso continua a dividere e affascinare. C’è chi lo considera un capolavoro di urbanistica sperimentale e chi lo vede come un azzardo architettonico. Ma forse proprio questa ambiguità ne ha garantito la longevità, rendendolo uno degli esempi più curiosi e discussi della Milano meno conosciuta.

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